Dimenticate i poliziotti pasoliniani, soprattutto quelli di “A.C.A.B.”, quelli che hanno tanta paura quanta i manifestanti, quelli che lo fanno solo per vivere, proletari più di noi. Quelli non esistono più. Se mai sono esistiti.
“Diaz” sin da subito non ha avuto vita facile, già in fase di lavorazione. Nessuno in Italia ha voluto produrre la pellicola e alla fine Procacci (al quale c’è da essere riconoscenti) ha coperto da solo circa l’80% dei costi. La restante parte è stata finanziata da due case di produzione, una francese e una romena, e proprio in Romania si sono svolte le riprese.
Protagonista del film di Daniele Vicari, uscito ieri nelle sale italiane, è la violenza. La violenza gratuita e lucida, non giustificata dalla paura. Vicari ripercorre la notte fra il 21 e il 22 luglio del 2001 quando, a Genova, in pieno svolgimento del G8, 346 poliziotti e 149 carabinieri fecero irruzione nella scuola Diaz, dove alcuni manifestanti e giornalisti, italiani e non, si erano accampati per passare la notte. E lo fa da un duplice punto di vista: quello delle forze di polizia e quello di coloro che, dalle forze di polizia, hanno subito orrende percosse, torture e umiliazioni degne di un lager.
Non c’è romanzo: la pellicola traduce in immagini le testimonianze contenute negli atti giudiziari, nulla di più. Non c’è indulgenza, non c’è speranza.
Vicari riapre una ferita profonda undici anni, fatti di omissioni, inquinamenti di prove, minacce. Una ferita che non riguarda solo chi l’ha vissuta sulla propria pelle, anzi trascende addirittura il movimento. È una ferita che riguarda qualunque essere umano che difenda la propria dignità e la propria libertà.
Genova 2001 doveva cadere nell’oblio, perdersi nelle sfumature delle mille versioni dei fatti. E invece no, perché questo film sbatte in faccia il racconto di quell’inferno anche a chi quell’inferno continua a negarlo.
“Diaz“, in un certo senso è più di un film: non ci sono veri protagonisti che spiccano sugli altri, non interessano le vicende personali, non c’è una morale, e in alcuni punti vengono intercalate immagini autentiche provenienti da riprese amatoriali. È quasi un documentario privo di didascalie.
Ci sono i black bloc, uguali a mille altri ragazzi, che ribaltano macchine, protestano e diffidano della polizia. Non poliziotti infiltrati, ma ragazzi incazzati.
Ci sono i manifestanti e gli organizzatori del Genoa Social Forum, che coordinano, organizzano, indirizzano, protestano e diffidano della polizia.
Nessuna catarsi in questo film. Nessun poliziotto “buono”, solo alcune persone in divisa che, pur non abusando della loro posizione, obbediscono a tutti gli ordini, anche i più sanguinari, tengono per sé le perplessità e le rimostranze e non denunciano gli abusi dei colleghi.
Ma “Diaz” non può nemmeno essere etichettato (e banalizzato) come un “film contro le forze dell’ordine”, giacché, se da un lato ne offre un ritratto lucido, impietoso, senza mezzi termini, dall’altro si limita a raccontare quei fatti, quelle dinamiche e quei celerini, senza generalizzare.
Eppure dal Coisp, il sindacato della Polizia, hanno invitato a boicottare la pellicola perché, a loro dire, offrirebbe una rappresentazione parziale di fatti, oggetto, per altro, di processi che non si sono ancora conclusi.
Vale la pena allora ricordare i dati di questi processi, che aiutano a comprendere l’importanza e la necessità di un film del genere, che si è fatto attendere anche troppo.
Dei 93 che furono arrestati nella Diaz (87 feriti, tre prognosi riservate e un coma) nessuno fu processato. Nessuna accusa a loro carico.
Viceversa, 29 fra agenti e dirigenti della Polizia di Stato sono stati imputati in primo grado, e 25 condannati in Appello, accusati di aver rilasciato dichiarazioni “false, dolosamente finalizzate a giustificare gli arresti, a calunniare gli arrestati e a coprire le violenze compiute da colleghi e sottoposti”, scrivono i magistrati. Alcuni agenti, condannati in Appello per falso ideologico, falsa testimonianza e istigazione alla falsa testimonianza, sono stati anche promossi.
Mi sento di consigliare il film soprattutto a chi nel 2001 era troppo giovane per capire cosa stesse accadendo e chi ancora decanta il poliziotto pasoliniano.
In “Diaz” non c’è pietà. Non dev’esserci perdono.
Mannaia Storta
nel 2001 non ero troppo giovane per non capire. ma mi sembra che solo ora si comincino a diradare le nebbie che confondono conoscenza e coscienza. La lucidità delle immagini abbatte ogni residuo di ipocrita e distante indignazione. Rimane solo una rabbia atroce e potente che urla la sua necessità di uscire allo scoperto. Concordo con quello che ho letto in un blog: il film dovrebbe essere proiettato ovunque. Il sangue non verrà lavato.
Io non vedrò Diaz.
Un film inutile per chi ha vissuto violenze da parte della polizia e che non ha bisogno di ore di violenza bidimensionale a pagamento. Inutile per i sostenitori delle forze dell’ ordine che anche di fronte ai “casi” Cucchi, Aldrovrandi, Uva (e potrei nominare anche … ma non lo faccio, per pudore) …, non battono un sopracciglio.
Dannoso per tutti gli “altri” perché per come la vedo io serve solo a -da un lato- generare paura: paura di farsi male, di sporcarsi le mani, paura del sangue vero.. e dall’ altra ad esorcizzare lo scontro concreto, quotidiano, di tutti i giorni, in favore di uno scontro simbolico, di “massa”, spettacolare.
Già parlare di “sospensione” dei “diritti democratici” è un’ idiozia ipocrita. Quando il concetto stesso di diritto è ipocrita e bieco -poiché sottintende quello di Stato (non c’è diritto senza Stato di diritto) e il concetto di Stato sottintende quello di violenza legalizzata- come lamentarsi se dei manifestanti che attaccano questo stato di diritto (e quindi ne escono fuori, per porsi come “nemici”) vengono repressi coi mezzi della violenza?
E di questo si tratta. Chi si arrabbia coi poliziotti solo quando vede che picchiano dei “poveri manifestanti” non mi sembra molto lucido sull’ entità e sulla qualità dello scontro. Non capisce i poliziotti e non capisce i “manifestanti”.
Il film si limita a raccontare senza prendere posizioni. assurdo anche questo, o meglio del tutto comprensibile nella sua assurdità, perché come si sa: la violenza paga (e non spiega).
e poi, piano piano, ci abituiamo anche al sangue senza odore.