Successe un giorno che erano usciti a bere qualcosa. Non era ancora caldo, ma si stava bene nel pomeriggio che si allungava a rubare spazio alla cena. Decisero di sedersi fuori, ai tavoli di un locale non lontano dal centro, ricavato in un palazzo con pareti in pietra e un’aria solenne.
“Ma almeno il tuo lavoro ti piace?” chiese Claudia, piluccando una carota affettata in riccioli sottili.
“No di certo”, rispose Giancarlo.
“Perché non lo cambi allora? Non pensi di avere altre possibilità?”
“Sì, potrei cercarne uno nuovo. Ma non mi va.” continuò “La cosa che amo nel mio lavoro è la sua insopportabilità”.
“Non capisco” replicò Claudia.
“E’ molto semplice, in realtà” sbuffò Giancarlo “Non c’è nulla, nulla, che possa interessare qualcuno abbastanza a lungo da tenerlo occupato e contento per una vita intera. Ma il fastidio -il disgusto, se vuoi- quelli possono durare abbastanza da non annoiare mai.”
Prese una nuova manciata di arachidi e continuò “Dal mio lavoro resto disgustato in modo diverso ogni giorno, abbastanza preso da non avere tempo per altro. Mi si asciuga la bocca, il respiro si accorcia e a volte sono costretto a tirare il fiato.”
“Ma hai sempre detto che avresti voluto fare lo scrittore” obiettò Claudia. “Cosa ti costa provare?”
“Scrivo, infatti” sorrise Giancarlo “Mi bastano una penna e una vecchia agenda. Persino a voler essere assurdamente professionale, meno di mille euro basterebbero a comprare un portatile assurdamente potente e un programma di scrittura di cui sfrutterei, forse, la decima parte”.
“Ma potresti provare a farti pubblicare qualcosa” insistè Claudia.
“A dire il vero, quanto allo scrivere, l’idea di pubblicare è la sola che mi atterrisca”. Sorridendo, riprese: “Fare qualcosa che mi piace, per lavoro: questo mi terrorizza. Solo un pazzo, o uno scemo, o uno che è tutte e due le cose, può credere che lavorare sia bello, che si tratti di trovare quello che davvero ti piace, mentre intanto ti consumi con quello che ti disgusta”. Si accorse di aver messo su il solito tono aggressivo, sorrise, guardandosi le mani. “Pensaci: che senso avrebbe essere pagati se davvero si facesse solo quello che piace? E’ evidente che assieme al bello delle cose dovrai mandare giù anche il brutto. Accettare che quello che ti piace diventi anche routine e farlo, perché è quello che ti paga l’affitto. E il cibo” continuò, bevendo un sorso di vino bianco. “Per quanto mi riguarda, la soluzione dell’enigma è semplice: trasformato in lavoro, vedrei un incubo grigio e monotono anche nel più colorato dei sogni. Ma il mio lavoro inutile, coi suoi orari dimentichi della vita, la tensione sottile e costante, la stanchezza continua, è il meglio che potesse capitarmi. Non corro neanche per un istante il rischio di ritenermi fortunato a lavorare, e questa” concluse “è la vera fortuna”.
Ridendo, Claudia rispose: “Non riesco proprio a credere a quello che dici. Vuoi farmi credere che non ti piacerebbe un lavoro bello e gratificante?”
“Non mi piacerebbe, no” rispose Giancarlo “Scrivere, suonare, dipingere per lavoro. Anche a convincersi e convincere gli altri di esserne capace, sarebbe ogni volta come strapparmi il cuore e gettarlo a cani sazi mai contenti. Nel mio lavoro quello che penso non interessa a nessuno, non devo condividere nulla: solo vincere il fastidio. E pensaci, poi: pubblicare” continuò, indicando un tascabile malmesso accanto a una borsa dorata, su una sedia infilata sotto il tavolo accanto “finire su pagine stampate, unte da mani distratte negli autobus del mattino. Compagnia da cesso, a portata di mano. Ninna nanna per aspettare il sonno.”
“Va bene, va bene: lasciamo perdere. Ma ci sarà pure qualcosa di meglio, che puoi fare sorridendo” insistette Claudia. “Sei pur sempre un ingegnere”.
“Se il mio lavoro fosse respirare” concluse Giancarlo addentando una tartina sbiadita “passerei la vita a trattenere il fiato”.
[gradito contributo dal blog Moby Sick]