Venerdì 9 dicembre ho incontrato un ragazzo fuori da un supermercato, elemosinava. Si chiama Lamin, ha 32 anni, viene dal Senegal. E mi ha raccontato una piccola parte della sua storia.
-Da dove vieni?- gli domando.
-Senegal.-
-Per venire in Italia, hai attraversato la Libia? Sei sbarcato a Lampedusa?-
Lui annuisce.
-Posso farti qualche domanda? – gli chiedo – ti va di raccontarmi la tua storia?-
Non parla ancora bene l’italiano e non riesce a capire che cosa voglio da lui. Forse, in fondo, neanche si fida di una perfetta estranea.
Gli spiego, in inglese, che vorrei sapere qualcosa sul viaggio che lo ha portato qui.
-Ok!- mi risponde, sorridendo.
È arrivato in Italia a Luglio del 2011, dopo un viaggio di 6 mesi che lo ha portato dal Senegal alla Libia. È sbarcato a Lampedusa, dove è rimasto poco tempo, poi a Manduria e da lì a Latina.
È venuto con sua moglie, il resto della sua famiglia è rimasto in Senegal. Quando gli chiedo se ha dei figli non mi risponde.
Mi dice che lui e sua moglie non hanno dovuto pagare nessuno per farsi portare in Italia, il che mi stupisce dal momento che in Africa si è creato un vero e proprio business attorno a queste migrazioni: una tratta dei negri del nuovo millennio.
Nel suo paese Lamin faceva il muratore nei cantieri, ma qui in Italia non può: non ha i documenti e non lo assumerebbe nessuno, sarebbe un rischio troppo grande per tutti.
-Non hai paura che la polizia ti trovi senza documenti?- gli domando.
-Un po’…- lo dice sorridendo, con lo sguardo di una persona che la paura l’ha vissuta davvero e che certo si fa intimidire da cose come questa.
Vive in un centro di accoglienza. Ha dove dormire, ha di che mangiare. L’elemosina serve per mettere da parte qualche soldo.
Gli domando di Lampedusa, di cosa ha visto lì.
Lampedusa, mi dice, è un vero caos: c’è molta gente che arriva, polizia ovunque, ma con lui e sua moglie sono stati tutti “molto buoni”. I poliziotti li hanno rifocillati appena arrivati, e i cittadini dell’isola erano gentili.
Non come in Libia. In Libia, Lamin, c’è passato in uno dei momenti più aspri del regime di Gheddafi. Molti emigranti come lui finivano in prigione, quasi tutti venivano maltrattati, rischiavano di morire per il solo fatto di aver varcato il confine.
Lui e sua moglie fortunatamente hanno superato illesi anche quella tappa.
-Ti piacerebbe tornare nel tuo paese, in Senegal?-
-No.- Mi spiega, con molta umiltà, che qui, almeno, ha da mangiare. In Senegal la sua famiglia non era neanche sicura di riuscire a fare un pasto al giorno.
-Dove sei diretto ora?- gli domando, convinta del fatto che per un emigrante che parla bene sia l’inglese che il francese l’Italia non sia un punto di arrivo.
-Restiamo qui- mi risponde, e lo fa col tono dell’uomo che, dopo tanta fatica, ha realizzato la sua vita.
Mar.Na.