Il Cencio
Aperiodico libertario dell'Agro Pontino
Il Pensiero del Suicidio [Racconto]
Categories: Cabaret Voltaire

Prefazione per “Il Cencio”

Latina, 2 Febbraio 2013

“Il Pensiero del Suicidio” è il titolo del racconto che ho scritto, quasi febbrilmente e in poche ore, la notte del nove luglio 2009, per partecipare alla terza edizione del premio letterario “GialloLatino”: festival di narrativa gialla e noire ispirata al territorio di Latina e provincia, il cui termine per la presentazione del materiale scadeva, al momento in cui decisi di cimentarmi nell’ impresa, nell’ arco di circa 24 ore.

La narrazione ruota intorno alla (fantasticata) morte di Vincenzo Zaccheo -ex-sindaco di Latina dal 2002 (e al tempo della pubblicazione ancora in carica)- ed è ambientata successivamente all’ affidamento della gestione del cimitero di Latina in favore della Ipogeo-Damiani s.r.l. (siglata l’ 11 Marzo 2009 e tutt’ora valida).

Il racconto, che avevo opportunamente abbreviato in extremis per rientrare nelle striminzite misure imposte dal bando, fu poi selezionato dalla giuria per la pubblicazione (tra circa un centinaio di racconti arrivati da un po’ tutta Italia) ed effettivamente pubblicato in una versione censurata (a mia totale insaputa) nell’ antologia GialloLatino 2009, presentata in occasione della premiazione il 26 Settembre 2006 al museo Cambellotti di Latina.

In particolare, il nome del sindaco venne cambiato in “Valerio De Franceschi” e quello della società cimiteriale (non senza un certo gusto ironico, c’è da ammetterlo) in “Ubris s.r.l.” (per approfondire il concetto di hybris leggi qui).

Di seguito riporto la versione originale nella stesura integrale.

Nient’ altro da aggiungere, se non fosse per due aneddoti curiosi: a circa sei mesi dalla pubblicazione dell’ opera, il sindaco di Latina fu costretto a rassegnare le dimissioni dopo otto anni di mandato ininterrotti (la città rimarrà commissariata fino al 2011) e pochi giorni dopo fu coinvolto in un incidente stradale (da cui comunque è uscito vivo).

Buona lettura.

Luca Perrino

l.perrino@gmail.com


IL PENSIERO DEL SUICIDIO

 

 

 

Cinzia Pellin, Come un Angelo

 Cinzia Pellin, “Come un angelo”, oil on canvas, 100×150 cm, 2006

“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio.”
A. Camus

 

 

Anche a Latina la notte ha le sue sfumature ma quella tra il 10 e l’ 11 Novembre fu per me semplicemente e irrimediabilmente nera.

La polizia bussò alla mia porta due volte. Erano circa le 4 del mattino, ogni volta con due colpi secchi e decisi. Quando andai finalmente ad aprire, le labbra bianchissime del poliziotto presero a muoversi da subito con una calma glaciale ed io immediatamente capii, senza neanche ascoltare, che davanti a me c’ era soltanto buio. Le labbra vennero inghiottite dalle lunghe ombre che dalle palme del giardino mi si gettarono addosso, avvolgendomi in una vertigine e facendomi cadere a terra priva di sensi.

“Vincenzo Zaccheo, sindaco di Latina ed esponente di spicco del PDL pontino, è morto questa notte. Ha perso la vita, in un tragico incidente stradale in cui non sembrano per il momento essere state coinvolte altre persone, il nostro primo cittadino. Rimangono da chiarire le cause dell’ incidente.”

L’ articolo di “Latina Oggi”, letto a voce alta dal barista alla folla accalcata intorno al bancone, fece scendere sul bar del circolo cittadino di Piazza del Popolo un silenzio criptico. La torre dell’ orologio batteva le 6. Quella mattina il caffé fu per tutti più forte e più freddo del solito. Secondo la ricostruzione del quotidiano pontino la sera del fatto il sindaco era uscito dalle sale del comune, per recarsi ad una cena di partito, di cattivo umore: causa le polemiche con il resto della giunta per motivi legati all’ ultima discussa delibera del consiglio comunale, che aveva disposto l’affidamento del servizio cimiteriale ad una società privata. Di ritorno dalla cena, mentre si trovava a bordo della sua auto, il sindaco avrebbe perso il controllo della vettura durante un sorpasso azzardato su via Epitaffio, schiantandosi contro uno dei numerosi pini che costeggiano il lungo corridoio che congiunge la stazione di Latina Scalo alla città, morendo qualche attimo dopo a causa delle numerose ferite, poco prima dell’ arrivo dei soccorsi. Sulle cause dell’ incidente, in fondo all’ articolo, il giornalista rimaneva vago, limitandosi ad accennare ad un possibile malessere e all’ alta velocità, e la voce del barista si faceva sempre più roca mentre incespicava su termini desueti come “deflagrazione”.

Guardai il professore carezzarsi le guance seguendo chissà quali pensieri, perso nel vuoto. “Ha sentito che storia professò?” dissi tanto per dire qualcosa, per riportarlo a terra. Lui rimase ancora un attimo immobile, come trattenuto in aria dal suo stesso pensiero, poi, quasi si fosse liberato da un peso si girò di scatto e rispose solenne:
“E’ pericoloso giocare con i morti. Meglio lasciarli in pace, no?”.
Non capii bene fino a che punto e in che senso stesse ironizzando, data la stranezza del tono con cui aveva pronunciato quello scherzo, e allora lo incalzai:
“Non sarà mica superstizioso? Un uomo di scienza non può permettersi certi lussi, o no?”
Lui mi guardò beffardo, poi bonariamente disse:
“Lo sono invece, e molto. D’ altronde sarei superstizioso anche se fossi uomo di scienza fino in fondo, riflettici un attimo”

Trovai molto arguta la sua paradossalità ma per nulla convincente e allora tentai di scavare più a fondo:

“Beh, se i morti sono morti, perché non dovrebbero lasciare in pace noi vivi, con tutti i problemi che abbiamo?” “Anche i morti hanno i loro problemi, a quanto pare. E poi anche i vivi sono in una certa misura morti, e viceversa: non c’ è mai separazione netta. Come tra la giustizia e la criminalità, come tra la ragione e la follia: la zona di confine è più ampia di quanto si creda, e anzi, forse è l’unica in cui abbiamo davvero ragione di credere”.

Io iniziavo ad innervosirmi: trovavo inaccettabile che proprio quella mattina il professore mi rivelasse quella sua parte ai limiti del mistico, con quei discorsi sghembi, così contrastanti con il suo linguaggio abitualmente chiaro e concreto che quasi stridevano nelle mie orecchie, ma decisi che il pensiero della morte poteva fare di questi scherzi e abbozzai, ritornando a chiudermi nel mio silenzio.

Dopo qualche secondo, però, il professore aggiunse: “Non voglio prenderti in giro, ma davvero, non tutto è razionale. La morte per esempio è solo una parola con cui indichiamo la parte  irrazionale della vita, quella che non sappiamo spiegarci e che ci lascia in silenzio.”
“Come il caso?” chiesi io, tanto per dire.
“Forse” rispose lui “ma più come la corruzione”
Io non capii bene cosa intendesse dire e allora lui, sorridendo della mia curiosità, iniziò:
“Avrai sentito parlare di Max Weber, il grande sociologo. Ha passato molti anni a riflettere sui meccanismi della politica e dell’ economia. Non si stancava mai, quando si riposava era perché si era preso un bell’ esaurimento nervoso. Beh, Weber pensava che la politica fosse come una grande macchina, i cui pezzi sono i funzionari: i politici di professione come la buonanima del sindaco. Questa macchina è costruita da una comunità di cittadini, come me e te, per il proprio vantaggio cioè per ottenerne dei servizi. Idealmente è la realizzazione di un progetto razionale e quindi il suo funzionamento è sempre prevedibile. E fin qui la normalità. Ma, stai attento, questa macchina può prendere il sopravvento sulla collettività che doveva servire, e agire autonomamente. E’ a quel punto che si parla di corruzione della macchina politica. Ma secondo me sarebbe più corretto parlare di morte, di necrosi: e questo perché la macchina politica, a seconda della gravità di questa corruzione, ammala e diventa qualcosa di distruttivo per la collettività. Quando questo succede, quando la razionalità del suo scopo viene persa, può accadere di tutto. E infatti…”
“Sta forse dicendo” lo interruppi incredulo “che il sindaco è stato ucciso? Ma questo è completamente folle!” “Sicuramente!” ribattè lui con concitazione “Ma non voglio dire, attenzione, che questo sia stato il frutto di un’ azione premeditata di qualche singolo o di un qualche gruppo. Stammi a sentire. Se la macchina politica è corrotta, cioè se diventa irrazionale rispetto alla propria funzione genuina, allora può far accadere di tutto: non si può escludere, in linea di principio, un bel niente”. “Ma un incidente è un incidente, è indipendente da questi discorsi! E’ morto un uomo, un cittadino, non un ingranaggio della macchina! Sta dicendo un mare di sciocchezze, professò” Tentai una risata per sdrammatizzare l’ angoscia che l’ assurdità di quel discorso mi aveva svegliato dentro, ma senza riuscirci. Il professore mi guardò attentamente, quasi scrutando il mio malessere, poi disse con calma: “Ti sembrerà assurdo, e non ti sbagli, ma un politico di professione non è soltanto un uomo come tutti gli altri, è anche e soprattutto parte di un meccanismo. Ed è il meccanismo che uccide l’ uomo. O si sta dentro o si sta fuori. Non c’è via di mezzo. In questo caso non c’è una vittima, soltanto un ingranaggio rotto. Per quanto ne so potrebbe anche essersi suicidato, non cambierebbe granché”. Ci alzammo dal tavolino e ci dirigemmo fuori, in silenzio, nel bar si faceva un gran vociare. Uscimmo dal grande ingresso, Piazza del Popolo di fronte a noi iniziava a popolarsi. “La morte è dappertutto” concluse il professore, “soprattutto dove non te l’ aspetti”.
La “palla”, la fontana della piazza, quella mattina era spenta.

Quando ripresi coscienza ed aprii gli occhi le mie due figlie vennero ad abbracciarmi. Ero distesa sul divano. Sul tavolo della sala, le luci spente, qualcuno aveva acceso una candela. Non ero sicura di niente, ma l’ abbraccio liquido e singhiozzante delle mie bambine, ormai due giovani donne, non lasciava spazio a dubbi: mio marito, loro padre, era morto. Non so perché ma non avevo voglia di piangere con loro, le abbracciai stringendole più forte che potevo, poi le scansai con delicatezza, mi misi seduta e mi alzai. Non provavo nessuna emozione. I poliziotti avevano facce dure ma buone, uno di loro, serio e accorato disse: “Signora Zaccheo, si sente un po’ meglio? Capisco il suo dolore ma dobbiamo farle qualche domanda, sa, la routine. Non ci vorrà molto”. Risposi che non c’era nessun problema e che avrei firmato tutto quello che c’era da firmare ma che volevo sentire il parere del medico prima di procedere con la cremazione.
Ricordo che aggiunsi sovrappensiero: “Sa, mio marito era astemio.”

Negli uffici della Ipogeo-Damiani un cirro nerastro serpeggiava per la stanza.
Il direttore, in compagnia del fratello, fumava nervosamente.
“Michè, hai visto? è morto Zak, poveraccio”
“Sai come si dice, in questi casi? Che Dio opera per vie misteriose”
“Ma quale Dio Michè? Tu ci credi in Dio?”
“E come no? Lo sanno tutti che sono un pio devoto del dio.. Danaro!”
Ed esplosero entrambi in un’ allegra tosse grassa da fumatori accaniti, ridendo di gusto.
“Non bestemmiare Miché, che non si sa mai”.
Il direttore si affacciò alla finestra del grattacielo. Il centro commerciale Latinafiori, con le sue torri di vetro che circondavano le piccole piramidi centrali, da quell’ altezza sembrava quasi uno dei plastici che si vedono durante quelle noiose riunioni per l’ approvazione del PRG.
Fece avvicinare il fratello con un cenno.
“Che vuoi?” chiese lui, affacciandosi a sua volta e seguendolo con lo sguardo.
“Guarda un po’ qua sotto, che ci vedi?”
“E che ci devo vedere?” fece quello con uno sberleffo “è’ il centro commerciale”.
“Già” rispose lui meditabondo, senza distogliere gli occhi. “Non ti sembra che riassuma un po’ tutta questa città di merda? Un centro commerciale schifoso, con al centro i negozi e intorno le torri con gli uffici. Tutto di vetro che da fuori ci si specchia il cielo e dentro non fa vedere niente. Sembra quasi un castello medievale, con due assurde piramidi al centro”
“Ah Miché! beato a te che hai il tempo per pensare tutte ‘ste cazzate, mentre io devo pensare alle cose serie”
“Ah!” Fece lui allargando le braccia come un sacerdote e allontanandosi verso il centro della stanza con lo sguardo rivolto al cielo: “E’ proprio vero! Rendiamo grazie a Dio!”.
“Comunque, tornando coi piedi per terra, ora che ci siamo tolti quella zecca di dosso, per noi inizia la primavera eterna. Sbocceranno euro da quelle tombe, tutti i nostri affari fioriranno. Abbiamo tre uomini fidati nella giunta, e il prossimo sindaco sarà di sicuro uno dei nostri. Magari eleggono proprio il Greco. Te l’ immagini, eh Michè?”

Uscita dalla questura, quella mattina, continuavo a ripetermi che era stato un incidente, un incidente, un incidente. Come un’ eco. Mia figlia, la grande, mi aveva accompagnato, l’ altra era rimasta a casa con i genitori di lui. Dappertutto incontravo solo condoglianze e frasi fatte: “Ognuno ha il suo destino” ripeteva la stessa voce con mille facce e parafrasi diverse. Già, ognuno ha il suo destino, ma era da tempo che Vincenzo tornava a casa sempre più tardi, taciturno, non mangiava quasi più. Avevo raccontato tutto questo ai poliziotti che però non mi sembravano granché interessati, quasi sapessero già tutto o non volessero sapere proprio niente. Il commissario mi guardava con la faccia di chi faceva finta di ascoltare e intanto scriveva, scriveva e sembrava pensare ad altro. Per un attimo avevo anche pensato che potesse essersi suicidato, glielo dissi. “Che sciocchezze!” mi aveva risposto lui, avvicinando la cornetta all’ orecchio e abbassando gli occhi per rispondere al telefono. “Mi scusi” aveva aggiunto poi, facendomi segno che potevo uscire. Ed io ero uscita davvero. Mentre mi dirigevo verso le Poste Centrali, per inviare dei telegrammi, posai lo sguardo verso via 4 Novembre, dove su Piazzale dei Bonificatori si erge un muretto di mattoncini ingabbiati dal ferro a formare una porta, ognuno dei quali conserva per iscritto il cognome di una famiglia di bonificatori. In quel momento mi sembrò un monumento alla morte. Pensai che anche quei poveracci che erano morti durante la costruzione della città, denutriti, deportati dal Veneto di notte su un carro bestiame sognando terre fertili, avevano lasciato ai loro cari un sogno, un senso, qualcosa a cui aggrapparsi nel dolore, un muro su cui appoggiarsi e piangere.. Ma a me cosa rimaneva, a parte i soldi e la villa a New York, come avrebbero ovviamente detto certe lingue lunghe? Mi sembrava di essere precipitata nel buio. E invece dovevo vederci chiaro. Iniziai a riflettere. Potevano averlo ucciso? Era possibile. Nell’ attimo in cui queste parole si presentarono alla mia mente sentii una scossa gelida percorrermi la spina dorsale. Cercai di ricostruire le dichiarazioni che avevo rilasciato poco prima alla polizia. Negli ultimi due mesi Vincenzo era stato vittima di una pressante serie di impegni. La privatizzazione della maggior parte dei servizi pubblici di Latina: acqua, trasporti, rifiuti ed ora anche quel maledetto cimitero, lo aveva trasformato in una specie di uomo d’ affari in continua tensione nervosa. Telefonate ad ogni ora, a volte anche di notte, e sempre più impegni. Non c’era mai, era dappertutto, sempre altrove anche quando era vicino. In un certo senso era già morto, o quasi, non esageriamo, per noi però non c’era mai, non c’era più: a me sembrava come sospeso in quella ragnatela di conoscenze tanto da esserne avvolto, imprigionato. Parlava raramente di lavoro e quindi non mi diceva granché. Io non insistevo mai perché tra di noi in fondo era sempre stato così. Una volta mi aveva accennato di certe voci che gli erano giunte all’ orecchio, dopo le ultime elezioni, che dal Partito lo volevano sostituire con un altro, che non si fidavano più di lui.. che lo volevano trombare insomma. Ma lui non se ne preoccupava: troppa fedeltà e troppa politica alle spalle per essere rimpiazzato dal primo ebreo napoletano di turno. E poi i suoi erano ancora forti e avevano bisogno di lui. Una volta mi era arrivata anche una di quelle telefonate, dicevano che avevano delle foto di lui con una ragazzina, ma io avevo attaccato subito: non bisognava prestare il fianco a certe fin troppo facili manipolazioni. Non contava. Ma oltre questo, oltre questo cosa c’ era che potevo sapere? Niente! Il vuoto. I ritmi si erano intensificati e così le sue preoccupazioni, di pari passo con le responsabilità. Ma era tutto schifosamente e assolutamente normale. Entrai nel palazzo delle Poste. Non poteva che essere stato un incidente, un incidente…

Piazza del popolo era lì con la sua geometria razionale a rassicurarmi. Sentivo freddo ma fortunatamente non pioveva e non c’era nemmeno vento. Quella mattina di Novembre tutto sembrava immobile, tranne per i passanti e le macchine che ovviamente si muovevano sempre più velocemente con l’ avanzare del Sole. Ci eravamo seduti al centro, su una delle panchine di fianco alla palla spenta, con la torre del municipio che si stagliava alle nostre spalle e i portici dell’ intendenza di Finanza alti e lontani, sulla sinistra. Il professore fumava tranquillo. Io mi ero alzato per andare a comprare il giornale ma lui mi gelò di scatto:
“Dove vai?” chiese guardandomi stupito.”A comprare il giornale”, risposi io, calmo.
“Aspetta un attimo, non devi chiedermi niente?”
“No! Che cosa?”
“Avanti, anche tu pensi che si sia suicidato, è vero o no?”
“Io no!” risposi confuso.
“E allora ti sbagli! E se anche mi sbagliassi io, era solo questione di tempo, ci sarebbe arrivato” “Ancora con questa storia, ma che vuol dire? che sta dicendo?”
“Fermati un attimo.” mi disse piano “Hai mai pensato al perché una persona si ammazza?”
“No” risposi io con leggerezza “ma è semplice: perché non è contenta della sua vita”.
“Certo” aggiunse lui approvando “ma io voglio dire: cosa spinge al gesto, a questo misterioso… diciamo coraggio va’, di uccidersi”
“Non lo so” dissi io pensandoci un attimo “ma penso che quando uno subisce una delusione, una perdita, un dolore forte insomma, può perdere la testa e allora decide che non ce la fa più e si ammazza”.
“Tu hai ragione, ma solo in parte” disse lui serio “il fatto è che si vuole sempre ascrivere il suicidio alla malattia, alla pazzia. E questo non è vero. Affatto. Un uomo perfettamente sano può suicidarsi se si verificano certe condizioni.. Durkheim, che è stato un grande sociologo francese, sostiene che questo avviene quando la struttura sociale, in cui l’ individuo vive, lo emargina. Ma questo non avviene solo agli individui malati, a meno che non si faccia della malattia qualcosa di molto, molto ampio. E spesso la malattia insorge invece dopo, non prima, quando il processo di isolamento sociale è già iniziato. Pensaci un attimo, un malato non vuole stare solo! Perché dovrebbe decidere spontaneamente di isolarsi, se invece ha proprio bisogno di aiuto?”.
Rimasi imbambolato a guardarlo, senza sapere cosa rispondere.
“Tu mi chiederai, a questo punto” continuò lui sorvolando sulla mia espressione idiota “cosa c’entri questo col sindaco. Bene, ecco cosa penso: a volte non è l’ esclusione bensì l’ inclusione ad attivare il meccanismo suicida, quando questa significhi una perdita di qualche cosa di essenziale, in questo caso: l’ umanità. E’ chiaro?”
“Ma neanche per sogno!” Risposi io facendo un gesto di impazienza con la mano, come per allontanare quei discorsi, e facendo per allontanarmi io stesso per poi invece rimettermi subito a sedere, nemmeno avessi una calamita sul culo. “La politica è una cosa sporca” continuò a dire lui come se niente fosse “l’ avrai sentito dire spesso. Ma non è che sia tanto sporca, è proprio disumana, da sempre, tanto più nella misura in cui è corrotta. Ricordi il discorso di prima..?
E la maniera moderna in cui si esprime e si diffonde questa disumanità è la preoccupazione.”
“Ma le preoccupazioni ce le ho anche io, professò, ce le abbiamo tutti! Pure lei che politico non è, non mi sembra tanto tranquillo” dissi quasi rasserenato senza sapere perché.
“Eh già. Hai proprio ragione, ce le abbiamo tutti in una certa misura e in un certo senso. Purtroppo questo è vero. Ma il politico è preoccupato più degli altri e diversamente dagli altri. E questa preoccupazione è un cancro per la sua umanità! Proprio perché a contatto diretto e parte integrante della macchina, le sue preoccupazioni non si rivolgono, o si rivolgono sempre meno, a contesti umani e sempre più invece a cose economiche, a fatti economici. Anche le macchine hanno i loro problemi. E se la macchina stessa, come abbiamo detto, smette di rispondere innanzitutto ai bisogni reali dei cittadini (interessi umani come distribuire acqua, smaltire la merda, seppellire i propri morti eccetera), per auto-alimentare invece i propri interessi, i suoi illusi ingranaggi diventano sempre meno uomini e sempre più ingranaggi: pezzi di una cosa morta che si crede viva, morti loro stessi. Loro fanno finta di fornire un servizio e invece si arricchiscono alle spalle della collettività ma la macchina fa finta di fare arricchire loro e invece li impoverisce alle loro spalle, e in quel che c’è di più prezioso: gli toglie umanità. Così il politico piano piano, da uomo che era, diventa capace solo di vivere nel mondo degli affari, della produttività, e finisce per rimanere, alla lunga, isolato da tutto il resto, isolato nell’ anima. Ed è questo che alla fine lo uccide! In un modo, o nell’ altro. E può anche sembrare vivo ma è morto! Perché non c’è più nemmeno un residuo di realtà umana in lui. Hai voglia allora a scoparsi le ragazzine! La vita non c’ è più.”
Guardavo fisso di fronte a me, gli occhi rivolti distrattamente verso l’ edificio grigio della biblioteca comunale. “Quanto la fate lunga, e’ stato un incidente professò” conclusi secco.
“Un incidente” ripetei di nuovo con tranquillità, e mi allontanai da lui con l’ intenzione di non rivederlo.

Una telefonata giunse al commissario proprio mentre questo stava facendo cenno alla signora Zaccheo che poteva anche andar via. Il commissario alzò la cornetta e fece un cenno di saluto col capo, senza staccare gli occhi dal foglio, ma al telefono non rispondeva nessuno. Riagganciò. Alzò gli occhi: la signora si era chiusa dietro la porta, uscendo senza far rumore. Il commissario si accese una sigaretta e smise di scrivere pensando che grazie alla privatizzazione del cimitero sarebbe costato anche a lui trenta euro, seppellire quello stronzo.

Il carrozziere, mentre finiva di smontare la macchina a pezzi, si accorse che sotto il pedale del freno un tenue bagliore brillava contro i raggi del sole, attirando la sua attenzione. Si chinò. Un attimo dopo stava chiamando la polizia, ma poi decise di non farlo e non rispose. D’ altronde poteva essere stata una distrazione di qualcuno che ci aveva messo le mani prima, magari proprio uno dei suoi, e non voleva rischiare di cacciarsi per qualsiasi motivo nei guai: aveva già tante preoccupazioni.
Un cacciavite incastrato sotto il freno… un incidente, pensò.
Lo tolse di mezzo, e continuò a lavorare, fischiettando allegramente.

 

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