Il Cencio
Aperiodico libertario dell'Agro Pontino
Prospettive sul collasso energetico della società industriale.
Categories: Ideario

[INTRO] Per ragioni che non starò a spiegarvi in questa sede, ci siamo ritrovati a tradurre un’interessante scritto dal #10 del periodico del progetto americano di critica anarchica e diffusione DIY 325: uno sguardo ed un inizio di discussione (anche se noialtri ne abbiam discusso già parecchio!) sul cosa e come fare alla viglia del collasso. Lo scritto è stato redatto in modo molto semplice anche per, soprattutto nella prima parte, farlo intendere a chi ha ancora qualche aderenza marxiana 🙂 Buona lettura!

Gerri P. Malerba

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Prospettive sul collasso energetico della società industriale.

 

«Praticamente ogni cosa che facciamo, dal mangiare un gelato ad attraversare l’oceano Atlantico, da fare il pane a scrivere un romanzo coinvolge, direttamente o indirettamente, l’uso del carbone. Per qualsiasi mestiere, anche il più pacifico, ne è richiesto un pezzetto; e se la guerra irrompe, l’esigenza aumenta a dismisura. Durante le rivoluzioni, il minatore è obbligato comunque a lavorare, o tutto si ferma, poiché la rivoluzione ha bisogno di carbone quanto la reazione. Qualsiasi cosa accada in superficie, il lavoro di piccone deve continuare senza sosta, o con pause un paio settimane al massimo. Perché Hitler possa marciare col suo passo dell’oca, perché il papa possa lanciare anatemi contro il bolscevismo, perché le squadre di cricket possano giocare nei prati dei lord e perché i poeti possano scribacchiare l’ennesima retrospettiva, è necessario l’approvvigionamento costante del carbone. Ma in fondo la cosa non ci tocca; sappiamo che “dobbiamo avere il carbone” e raramente – o mai – ci ricordiamo cosa l’estrazione del carbone comporta. »

dal saggio “In miniera” di George Orwell

Cominciamo con un dato di fatto: ogni sistema produttivo si basa sulla disponibilità limitata di materiale, risorse umane e risorse energetiche. All’ammanco di una di queste, ogni volta siamo testimoni del collasso di un sistema produttivo. E alla nascita di uno nuovo.

Interi imperi (da quello Maya all’impero Romano) caddero a causa dell’esaurimento di risorse naturali, od umane, più frequentemente che non a causa di attacchi esterni. Prima dell’avvento della civiltà industriale e globalizzata, la popolazione trovava sempre un buon rimedio: molti optavano per la fuga verso altre terre non ancora devastate dal lavoro dell’uomo o comunque verso zone rurali; oggi la situazione è molto differente, dato che non esistono praticamente più territori ancora incontaminati. Non esiste più un “fuori”.

Ed un’altra cosa: la scoperta di nuove risorse energetiche comporta modelli sociali sempre più complessi, gerarchizzati e massificati. Senza parlare poi delle forze militari e poliziesche necessarie per conquistare e difendere le ultime poche fonti di approvvigionamento di queste risorse. Ovviamente, in un sistema dove l’energia deriva direttamente da fonti animali, vegetali ed umane, risulta più facile mantenere un discreto livello di autonomia, dal momento che non si rendono necessarie procedure di controllo e centralizzazione della produzione, oltre al “trasporto” e alla trasformazione. Fonti energetiche come il petrolio (e le altre fonti fossili in generale), il fotovoltaico, le centrali nucleari e i grandi impianti idroelettrici, invece, hanno bisogno di un alto livello di specializzazione (quindi gerarchizzazione) ed enormi capitali di investimento; in un ordine di grandezza che solo stati o gigantesche multinazionali possono permettersi.

Fino ad ora, l’esistenza della società industriale è stata resa possibile proprio grazie all’apporto di questi combustibili fossili. Economici, efficienti e, come il petrolio, molto facili da trasportare. Ed in quantità sempre più grandi di pari passo con la crescita economica.

Ma tutto ha un limite: la “crescita infinita” è ovviamente impossibile e, d’accordo con le ultime teorie a cui è approdato l’ing. Hubbert con il suo peak-oil (picco di produzione petrolifera, NdT), abbiamo già da tempo sorpassato tale limite. Senza petrolio, l’economia non può crescere e, in un regime capitalista, questo comporta crisi, inflazione, disoccupazione e molto altro (siamo oggi, in verità, ad una fase preliminare sia del crollo che delle conseguenti guerre per l’accaparramento delle ultime risorse).

Quella che s’avvicina, tuttavia, non sarebbe una crisi come tutte le altre, come lo stesso ministro dell’ambiente francese, Yves Cocher, ha confermato: «Quando il petrolio raggiugnerà i 100$ (al barile, NdT) non sarà più una crisi ordinaria, ma piuttosto la fine del mondo così come lo conosciamo» (e la recente crisi finanziaria ne ha dato una chiara prova).

Non stiamo parlando di limitazioni nel viaggiare con le nostre auto, ma di penuria cibo, acqua, accesso alle cure… di qualsiasi cosa, dal momento che davvero ogni cosa, in quest’epoca, dipende direttamente dal petrolio. Giorni fa siamo riusciti a scovare una notizia passata abbastanza in sordina: gli Stati Uniti sono in procinto di razionare il riso poiché i paesi produttori (come Vietnam e Cambogia) stanno chiudendo le frontiere all’esportazione. Molto altre notizie “nascoste” parlano di rivolte e proteste in tutto il Terzo Mondo a causa dell’impennata dei prezzi del grano. Dall’altro lato, dove la fame non colpisce, l’Unione Europea pretende che il 10% del suo consumo di carburante provenga da “biodiesel”, togliendo ai contadini le loro colture tradizionali e beneficiando del fatto che anche gli Stati Uniti necessitano e, quindi, spingono per la coltivazione del granturco ad uso carburante. Cosa rappresenta ciò, se non un pianificato genocidio, costringendo interi popoli alla fame?

Sia l’utopia Leninista che ha portato all’incubo Sovietico, anche nelle declinazioni più “libertarie”, sia il nuovo sogno ecologico di città ecosostenibili, sono ben lontane dalla realtà. Bugie che nascondono il fatto più importante, ovvero che la sovrabbondanza energetica e produttiva si basa su:

  1. L’estrazione di risorse naturali e lo stato di guerra continua atto a mantenere il controllo su di esse.

  2. L’esistenza di una casta di tecnocrati, scienziati e specialisti di ogni genere destinati a gestire ogni aspetto della vita dei cittadini; fin laddove i politici non riescono ad arrivare. (ed anche in un sistema più “orizzontale”, nulla cambierebbe dal momento in cui il lavoro di questa casta non può, di fatto, essere messo in discussione).

  3. La necessità di un potere fortemente centralizzato che governi (o sembri governare) all’interno di questa costante guerra per le risorse.

  4. Lo sfruttamento e l’alienazione programmata della razza umana.

  5. Lo sterminio di tutte le culture che non condividono la mentalità produttivista, così come la distruzione delle loro terre.

Utopia o sopravvivenza

In definitiva questa nuova crisi, al contrario di quelle passate, non avrà una soluzione. Il tempo della Pax Romana è terminato, e la guerra sarà il nostro nuovo pane quotidiano. Da questo punto di vista, i confitti in Iraq ed in Afghanistan sono stati solo un preludio ed, ovviamente, il sistema dovrà giustificare gli ulteriori sacrifici e le austerità imposte. Possiamo fin d’ora assistere alle loro giustificazioni: in ragione dell’ecologia (cambiamenti climatici) hanno bisogno di costruire più centrali nucleari; in ragione della sicurezza (terrorismo fai-da-te come l’11 settembre) hanno bisogno di controllare ancor di più la popolazione anche con leggi speciali (ad esempio il Patriot Act), così come invadere altri paesi; in ragione dell’incredibile sviluppo di Cina ed India, hanno bisogno di innalzare i prezzi… Troveremo ad attenderci una sorta di “ecofascismo”, che probabilmente non abbandonerà mai la sua retorica democratica, ma che di fatto proverà a controllarci da molto vicino, sotto la bandiera dello sviluppo sostenibile e della tutela dell’ambiente.

Al momento stiamo assistendo solo ai primi sintomi sulla società: crisi finanziaria, il crollo di Wall Street, disoccupazione, inflazione e sfratti… il prossimo passo sarà l’insurrezione e, come è noto, sapranno come gestirla. Da poco tempo a questa parte, un reggimento dell’esercito di 4000 soldati è stato richiamato, dall’Iraq, negli Stati Uniti; pronto a fronteggiare eventuali emergenze, attacchi terroristici e “guerre civili”, curate a base delle armi “non letali” date loro in dotazione (così come ha dichiarato il Com. Robert Cloutier).

Agli inizi del Novecento, i nostri compagni hanno avuto idee chiare e precisi programmi rivoluzionari: in tempi di crisi, gli operai prendono il controllo dei centri produttivi (fabbriche, cantieri, ecc…) e i contadini il controllo della terra (mentre la massa degli insorti distrugge le istituzioni repressive), organizzandosi in collettivi basati sul mutuo aiuto e sulla solidarietà. La domanda è: ciò è ancora possibile? Di quali operai e contadini stiamo esattamente parlando? Di qualcuno che sa come coltivare una patata o costruire una sedia o un’automobile senza il contributo di macchinari super-tecnologici, microprocessori o ingegneri iper-specializzati? Abbiamo a disposizione una tradizione di solidarietà e mutuo appoggio nelle lotte per il lavoro?

 

Colpisci dove più nuoce

Quali possibilità abbiamo in questo scenario? Beh, credo che la prima cosa da fare sarà abbandonare per un momento tutto il nostro bagaglio ideologico e cominciare a discutere di cosa intendiamo esattamente per “rivoluzione” al momento, mettendo anche da parte, se necessario, le nostri sogni d’utopia onde analizzare oggettivamente la realtà ed il nostro potenziale in essa; sia riconoscere, da un lato, le opportunità di una crisi per uno smantellamento dell’esistente che, d’altro canto, riconoscere i nostri punti deboli come “egoismo” e dipendenza dal comfort (tendenze che non risparmiano neppure i rivoluzionari).

Ad esempio, sostenere, ad oggi, che il “controllo dei mezzi di produzione” da parte del proletariato sia un’utopia di liberazione, quando tali mezzi necessitano di un altissimo livello di specializzazione, quando i costi ambientali ed energetici sono insostenibili, quando la produzione risulta complessa al punto che prodotti fatti in Cina e Malesia vengono montati in Romania cosicché possano essere venduti negli Stati Uniti… ci porterebbe semplicemente al suicidio; certamente un suicidio “auto-organizzato” e non controllato dalla borghesia ma, bensì, dalle macchine.

E perché non affrontare la realtà in modo diretto? Un cambiamento davvero rivoluzionario ridurrà drasticamente la produzione di beni e porrà fine al “benessere” e alla sovrabbondanza a cui siamo stati abituati, e che tutti (capitalisti, sinistrorsi, ecologisti benintenzionati) hanno più volte dichiarato di voler difendere ad ogni costo. Anche molti anarchici non accetterebbero, inizialmente, di vivere in questo tipo di società futura, dal momento che sarebbe assai difficile recuperare gli antichi metodi di produzione e una prospettiva di vita comunitaria. È piuttosto normale, in realtà, temere di non poter più rispondere con sicurezza alla domanda «Mangierò domani?». In Spagna, il recente sciopero degli autotrasportatori, dovuto al caro-carburanti, ha causato un vero e proprio assedio ai supermercati: migliaia di persone lanciate dentro i supermercati per accaparrarsi quanti più generi alimentari possibile, come riso, latte o cioccolato. Anche se sapevo che sarebbe accaduto prima o poi, per me è stato un vero shock vedere scaffali completamente vuoti ed interminabili file alle stazioni di servizio per provare ad aggiudicarsi l’ultima goccia di gasolio. In quella situazione, il governo spagnolo ha spiegato ingenti forze di polizia per sgomberare i blocchi autostradali degli autotrasportatori (anche sparando colpi d’arma da fuoco), mentre i media di preoccupavano di additare i lavoratori in sciopero come dei “terroristi”. Cosa sarebbe successo se lo sciopero fosse durato 2 settimane, anziché 4 giorni?

La questione centrale, quindi, è diventata «è possibile mobilitare un movimento di massa basato sulla critica alla crescita economica all’incremento della nostra qualità della vita?». Credo che la risposta sia chiaramente NO. Sarebbe destinato, per forza di cose, ad essere un movimento minoritario. Al momento, questo è la realtà dei fatti; tuttavia, in uno scenario in scenario dove la scarsità di risorse riesca a forzare un cambiamento sociale verso un nuovo paradigma che non il sia quello produttivista, potrebbe essere diverso. In ogni caso, essere una “minoranza” non ci dà certo ragioni per non agire direttamente. Nel momento in cui il sistema si sta autodecomponendo ed i suoi cittadini dubitano, o non vogliono affatto, difenderlo, si presenta la possibilità di dare il colpo di grazia. L’edonistica, incredula ed immorale società creata dal capitalismo tecno-industriale potrebbe essere la sua stessa tomba, poiché senza valori come religione, patriottismo od il “senso comune”, chi rischierebbe davvero per difenderlo? Ognuno proverebbe semplicemente a salvare sé stesso appena il conflitto sia di lì ad iniziare; così i capitalisti come i lavoratori (con poche eccezioni).

Credo che i recenti scontri nelle banlieue francesi possano darci qualche idea su che futuro ci attende. Qualche anarchico o rivoluzionario potrebbe anche partecipare a tali rivolte, ma molti di questi, appartenenti al ceto medio, sarebbero visti come nemici (non diversamente da come verrebbero considerati da polizia o dalla classe politica). Altri “anarchici”, sorpresi dalla violenza e dalla mancanza di prospettive politiche dei rivoltosi, hanno provato a giustificarli con il razzismo subito, la disoccupazione, l’assenza di servizi… altri ancora hanno espresso solidarietà con i rivoltosi attraverso azione dal contenuto politico anti-capitalista (come gli attacchi alle concessionarie francesi in Grecia). Ma come sappiamo, nessuno è realmente insorto per attaccare i punti deboli di questo sistema. Ad esempio, un blackout generalizzato (o molti, ma di dimensioni ridotte) avrebbe concesso agli insorti tempo prezioso per espandere il loro raggio d’azione ed avrebbe distratto non poco le forze repressive… ma è anche vero che le rivolte non sono esattamente rivoluzioni; e ci somigliano ancor di meno in questo tipo di società.

Costruire la rivolta

E dunque eccoci qui, al funerale delle vecchie teorie che hanno rappresentato il nostro faro per decenni ed hanno provato a far luce in una galleria decisamente buia. Cosa fare? Non è semplice rispondere: ogni individuo ed ogni gruppo deve discuterne, analizzando il loro ambiente naturale ed il loro contesto sociale. E gli unici due catalizzatori per un reale cambiamento sociale sono il recupero del senso di comunità ed il recupero del contatto con la natura.

Per esempio, i centri sociali autogestiti (se riescono davvero ad andare oltre l’estetica, il bar e le marche) possono essere dei luoghi per l’auto-organizzazione, possono avere contatti con il quartiere e con le lotte sociali, possono organizzare la propria autodifesa, diffondere informazioni, organizzare laboratori per l’autorecupero… e, solo alcuni, rendersi conto di quanto queste pratiche, consistenti nel riciclare o riappropriarsi degli scarti del capitalismo non siano abbastanza, cominciando a coltivare il proprio cibo direttamente in orti occupati.

Ma non è comunque abbastanza, dal momento in cui si rende necessario creare delle relazioni ed uno stile di vita completamente differente, quando la tua critica comincia dalle città e dal sistema industriale stesso. Possiamo realmente immaginare uno stile di vita differente in una città-mostro come Londra? Tutto risulterebbe così vasto ed artificiale che un modo di vivere non alienato e non piramidale, basato sul rispetto per la natura, sarebbe semplicemente impossibile. Cosa faranno quei 10 milioni di persone quando i loro burocrati ed i loro mestieri allineati saranno inutili? Avranno bisogno di nutrirsi e di un tetto, ma non avranno la più pallida idea di come procurarseli, dal momento in cui hanno sempre beneficiato dello sfruttamento di contadini e lavoratori del Terzo Mondo per ottenerli.

Per cui, se davvero non vogliamo che Stati o altri poteri centrali ci sovrastino, dovremo necessariamente vivere senza le città-mostro: sarà necessario un cambiamento verso l’universo rurale, dove l’autonomia non sarà solo una parola vuota, e dove potremo realmente recuperare le importantissime conoscenze ormai perdute per produrre in piccola scala (cibo, case, vestiti, ecc…) e con il dovuto riguardo per l’ambiente. Affrontare con l’azione diretta gli attacchi mirati del capitalismo urbano/industriale per il controllo delle risorse. Non si tratta solo di critica, ma di trovare soluzioni reali che costruiscano stili di vita non specializzati, non tecnicizzati, non gerarchici e a bassa entropia; soluzioni, tra l’altro, che ci potranno essere vitali in caso di un collasso del sistema.

Non c’è di certo una formula magica per la lotta, ed in città è molto difficile raggiungere un grado sufficientemente elevato di autonomia, ma è più semplice entrare in contatto con i momenti di lotta, cosa più ostica per chi sceglie la lotta nelle campagne. La comunicazione tra i due fronti è dunque fondamentale per supportare le varie lotte ovunque esse insorgano, per avere una prospettiva più profonda e colpire dove più nuoce.

Non ci sarà alcuna rivoluzione senza una vera autonomia, come non ce ne sarà alcuna se ci si limita ad isolate comuni rurali; per cui questo testo vuole dare inizio all’imperativa discussione necessaria per non farsi cogliere impreparati ai momenti critici che siamo di lì a vivere (e non sembra esserci rimasto troppo tempo).

[fonte: #10 di 325]

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