Il Cencio
Aperiodico libertario dell'Agro Pontino
Palude
Categories: Ideario

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(Foresta planiziaria a ridosso del Circeo)

Uno scherzo, un tragicomico capitare.
Un po’ di genti mescolate alla bell’e meglio e qualche zolla rivoltata.
E via verso il boom, no anzi, la decadenza. Oscar Wilde diceva degli americani che son passati dalla barbarie alla decadenza senza passare per la civiltà. Un po’ li capisco.

Quando fai dentro e fuori da questo angolo di provincia violenta sei abituato a definirlo “la palude”.

– Da dove vieni? –
– Dalla palude! –

– Dove vai per le vacanze? –
– Rimango in palude… –

– Stai andando? –
– Eh sì, torno in palude! –

La palude, questo dispregiativo, questo retaggio che sa di guazza, zanzare, umido e montagne in lontananza come un miraggio, uno scoglio. La città, Latina, tanto odiata… eppure cosa c’è da odiare? C’è natura ancora incontaminata (nonostante la centrale nucleare e la discarica di Montello), ci sono piccoli angoli dove la natura ancora fluisce inesorabile, ci sono montagne carsiche ancora selvagge, paesi antichi incastonati nei rilievi… cosa c’è che non va?

E allora vedi.

Vedi colate di cemento in verticale ed in orizzontale che smantellano l’orizzonte naturale per crearne uno nauseabondo e distopico, vedi la natura libera arretrare sotto una forza barbara, semplificatrice, votata al dominio; vedi la totale assenza di luoghi dove incontrarsi, ordire nuove trame, creare nuove situazioni, tutto in nome delle tasche di pochi ominicchi che godono nel veder distrutta la natura, quindi anche l’umanità.

Tutto ciò appartiene alla palude? No, tutt’altro.
Un tempo, prima che la retorica fascista facesse sterminio, innanzitutto, dell’immaginario, la palude non era una cosa “sporca”. Per le popolazioni che ben prima del tempo di Littoria popolavano i Lepini, la palude era una fonte quasi interminabile di legno, con le sue foreste planiziarie di sughere, lecci, farnie, cerri, carpini e sorbi, ed anche di cibo, con pesci e anfibi e piccoli anfratti di terra fertile. Per quanto ostile, offriva un ottimo rifugio a chi era inseguito dalla legge, poiché gli sbirri, bracci armati dell’ordine imposto, avevano il timore di un territorio così disordinato, così in divenire, così ingovernabile.
Generosa e crudele come natura vuole, la palude era un sistema indipendente da cui molti esseri, oltre l’uomo, potevano trovare giovamento.

Poi arrivò il barbaro travertino, l’elemosina da dare a qualche ex-militare della prima guerra mondiale per ottenere, principalmente, consenso per le proprie mire: da lì il processo di parcellizzazione, controllo e dominio di un territorio che era sempre stato di tutti e che oggi è fatto a pezzi nello spazio e nel cuore. Con la pretesa di civiltà e “redenzione” non si è fatto altro che far vivere nella miseria numerose famiglie, che pure erano riconoscenti per le briciole che hanno ricevuto dal loro padrone. Ora che tutti hanno il loro miserabile fazzoletto di terra possiamo sentirci tutti più ricchi, più dipendenti, più uniti nella disperazione.

Questo retaggio, tragicamente, è giunto fino a noi.
Lo si vede nel crogiolo di palazzinari che continuano a fare a fette la città in nome dei loro profitti, senza alcun riguardo per aria, acqua e terra che sono entità da cui tutti indissolubilmente dipendiamo; a colare cemento sui prati, sulle piazze e sulle vite, ormai docili ed ordinate, di chi popola la terra che un tempo era palude. Ciò che si è dimostrato stagnante, immobile e putrescente è stato questo continuo fermare il tempo in un non-luogo abitabile solo dal denaro, piuttosto che gli acquitrini.

Ed è qui che il termine “palude” assume un significato tutto nuovo.
Non più un dispregiativo che sa di chinino, ma un elogio alla libertà, al rispetto e all’equilibrio, che la violenza cieca della civiltà industriale – al tempo incarnata dal futurismo fascista – vogliono coscientemente smantellare, per fare in modo che, infine, l’uomo diventi solo un timido e sostituibile ingranaggio nel grande motore del cosiddetto progresso.

In fondo, noi siamo la palude.
Noi siamo quella fetta di terra che il mondo rozzo del travertino e quello vile del cemento hanno dimenticato di “bonificare”. Noi siamo quella comunità ingovernabile (cit.) ed in continuo divenire che erode le fondamenta dei monumenti imperituri, affonda i simboli della violenza e della disarmonia con la biosfera, serpeggia e complotta contro chi continua a disegnare contro di noi un mondo a righe diritte, compartimenti stagni, un mondo atomizzato e solitario, dove l’unica libertà è la libertà di consumare.

Nessuno sia più solo nella sua miseria, nessuno più sia abbandonato tra le opprimenti geometrie del dominio di Frezzotti e di Le Corbusier.

Insieme, tra una farnia ed una sughera, tenderemo una grande amaca ribelle nelle pieghe boscose della nostra palude.

Paludi Pontine – Napoleone Parisani (1854-1932)

 

 

5 Comments to “Palude”

  1. bormann ha detto:

    comunque voi la civiltà non ve la meritate proprio

  2. ravas ha detto:

    Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?

  3. Sturmtruppen ha detto:

    Non solo non me la merito, ma non la voglio proprio, la civiltà. Nell’eterna guerra tra travertino e fango, io sto dalla parte del fango.

    “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”

  4. Mannaia ha detto:

    Mi domando quale sia l’idea di civiltà di uno che si firma come un ufficiale nazista, Bormann. Ma non voglio saperlo, delle tue idee non me ne frega un cazzo.

  5. malerbabomba ha detto:

    È che non abbiamo detto “taci und ringrazien”! xD